Introduzione
di Cristina Iacobelli
Settore Lavoro - Tecnostruttura
La centralità riconosciuta ai servizi per l’impiego pubblici e privati, quali strutture primarie del mercato del lavoro, ha caratterizzato costantemente l’attività normativa, programmatica e amministrativa delle amministrazioni regionali negli ultimi quindici anni. I Quaderni di Tecnostruttura hanno in diverse occasioni dedicato degli approfondimenti a tale tematica, proponendosi di ricostruire lo stato dell’arte regionale e le prospettiva di riforma del sistema dei servizi, in concomitanza con l’evolversi del dibattito istituzionale e in coerenza con il composito quadro di linee di indirizzo e di regole tracciate in ambito europeo e nazionale.
Come noto, sul piano europeo, gli orientamenti susseguiti nel tempo, a partire dalla vecchia Strategia europea per l’Occupazione (SEO) fino allo scenario attuale delineato dalla comunicazione Europa 2020, hanno fortemente richiamato la necessità di poter disporre di un sistema efficace di servizi finalizzati all’inserimento/reinserimento occupazionale e, in una visuale più ampia, ad un proficuo orientamento e sostegno delle persone nei molteplici processi di transizione nelle filiere integrate dell’istruzione, della formazione e del lavoro, tenuto conto della multiformità dei contesti in cui si acquisiscono le competenze e si sviluppa la vita professionale di ciascuno.
Sul piano nazionale, d’altro canto, la profonda riforma della cornice istituzionale, avviata con il decentramento amministrativo nel 1997 delle funzioni amministrative in materia di collocamento e politiche attive e completata con la modifica del Titolo V, Capo II della Costituzione, operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, ha delineato un nuovo assetto di riparto delle competenze tra lo Stato, le Regioni e Province autonome e gli enti locali, nell’ambito del quale la legislazione nazionale (tra cui il D.Lgs. n. 181 del 2000 con le successive modifiche intervenute, il D.Lgs.. n. 276 del 2003 e, da ultimo, la legge n. 92 del 2012) ha progressivamente definito i principi generali di regolazione e le condizioni essenziali di funzionamento del sistema dei servizi del lavoro.
Alla luce di questa duplice dimensione, strategica e normativa, le Regioni e le Province autonome, mediante propri provvedimenti, hanno attuato e implementato nei propri contesti le indicazioni europee e nazionali, adeguandole alle specificità territoriali, nell’ambito dell’esercizio delle competenze regionali in materia di regolazione del mercato del lavoro e di programmazione degli interventi di politica attiva. Peraltro, in questo filone di operatività con l’esplodere della crisi economica e occupazionale un ruolo fondamentale è stato svolto dai servizi per il lavoro nella gestione degli interventi di politica attiva connessi alla fruizione degli ammortizzatori sociali.
In questa sede, partendo da una breve fotografia del contesto attuale di regolazione ed azione dei servizi per il lavoro, può essere utile un ragionamento teso a tracciare un possibile scenario di evoluzione, dando conto in estrema sintesi di alcuni elementi di riflessione che si profilano, a livello politico e tecnico, nell’agenda dei lavori e nei tavoli di confronto interistituzionale.
Una fotografia del contesto di attuazione regionale
Come noto, il sistema dei servizi per il lavoro opera su base provinciale, ai sensi dell’articolo 4, comma 1 lettera a) ed e) del D.Lgs.. 469/1997 che, nel decentrare le funzioni amministrative inerenti all’incontro tra domanda e offerta di lavoro e all’erogazione delle politiche attive, ha previsto l’istituzione nelle Province dei Centri per l’impiego (CPI), strutture competenti alla gestione di tali attività. Con il D.Lgs. 181/2000 – nelle modifiche apportate dal D.Lgs. 297/2002 - alle strutture provinciali di collocamento sono stati affiancati i soggetti privati ed è stata abbracciata una nozione più estesa di “servizi competenti”, comprensiva dei CPI e degli altri organismi autorizzati e/o accreditati a svolgere le funzioni finalizzate all’inserimento nel mercato del lavoro in conformità alle normative regionali. Con il D.Lgs. 276/2003, infine, è stato completato il quadro di riferimento per l’esercizio delle funzioni dei servizi per il lavoro, mediante l’introduzione dei regimi regionali di autorizzazione ed accreditamento e la definizione dei criteri per la cooperazione tra il pubblico e il privato, ferme restando alcune funzioni amministrative svolte in via esclusiva dalle Province.
Questo assetto ha trovato nelle Regioni e nelle Province autonome una puntuale declinazione, sia sul piano normativo, che sul piano più strettamente amministrativo.
Alla luce del dettato costituzionale sono state esercitate le competenze regionali, esclusive sul versante della formazione e concorrenti in materia di organizzazione del mercato del lavoro e programmazione delle politiche occupazionali, nell’ambito dei principi generali e degli indirizzi formulati dal legislatore nazionale. Le Regioni, pertanto, hanno fatto ricorso a propri strumenti legislativi (leggi regionali, a volte sotto la forma di Testi unici) volti non solo a definire l’assetto del mercato occupazionale locale e l’architettura fondante del sistema dei servizi per il lavoro, ma anche ad affrontare con una prospettiva di ampio respiro l’elaborazione delle linee di indirizzo regionale per la messa in atto di politiche integrate in materia di occupazione, sviluppo delle competenze, orientamento, qualità e sicurezza del lavoro. Ciò è avvenuto in tutte le realtà regionali in attuazione dei principi del decentramento amministrativo e, successivamente, in numerose Regioni per l’adeguamento dei propri sistemi alle novità recate dal D.Lgs. 276/2003.
Peraltro, sul versante amministrativo, tutte le Regioni hanno adottato provvedimenti normativi ad hoc (in prevalenza, delibere di giunta e regolamenti consiliari) o atti di indirizzo per regolamentare le procedure di collocamento e, in generale, il complesso delle attività finalizzate all’incontro tra domanda/offerta di lavoro all’interno dei singoli sistemi regionali di servizi per il lavoro. Tale attività si pone in linea con le indicazioni della normativa nazionale - che attribuisce alle Regioni e le Province autonome il compito di definire “criteri e modalità per la messa in atto di procedure del collocamento uniformi in materia di accertamento dello stato di disoccupazione”; “indirizzi operativi per verificare la conservazione, la perdita o la sospensione dello stato di disoccupazione”; “obiettivi ed indirizzi per favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro e per contrastare la disoccupazione di lunga durata” - ed appare oggi in corso di rivisitazione, a seguito delle novità introdotte dalla legge n. 92 del 2012.
Più variegata, invece, appare l’attività di definizione e messa a punto sul territorio dei dispositivi riguardanti i regimi di accreditamento e di autorizzazione regionale. La metà delle amministrazioni regionali ha infatti definito il sistema di accreditamento per lo svolgimento dei servizi per il lavoro e reso operativi gli elenchi degli operatori privati accreditati, in alcune realtà unitariamente alla disciplina del regime di autorizzazione regionale allo svolgimento delle attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale. Peraltro, l’istituto dell’autorizzazione regionale - che in base alla normativa previgente poteva essere concessa dalle Regioni con esclusivo riferimento al proprio territorio e previo accertamento della sussistenza dei requisiti individuati dalla legge nazionale per le agenzie per il lavoro - a seguito di ripetuti interventi normativi, finisce oggi con il sussistere solo in via residuale con riferimento alle normative regionali già adottate. In ambedue i casi, si tratta di provvedimenti che perseguono il fine di identificare le forme ottimali per il raccordo tra CPI, i soggetti privati e gli altri soggetti pubblici autorizzati ope legis all’attività di intermediazione, con il fine di migliorare il funzionamento del mercato territoriale del lavoro, regolamentare in modo rigoroso la partecipazione alla rete degli interventi regionali in materia di politiche attive, garantire adeguati standard qualitativi dei servizi erogati, assicurare ai cittadini l’erogazione di funzioni specialistiche e aumentarne la gamma.
La riflessione sull’accreditamento nelle Regioni si è sviluppata in modo complementare con il percorso di qualificazione e standardizzazione dei servizi per il lavoro, nella finalità di garantire agli utenti (persone e imprese) la qualità e l’omogeneità delle prestazioni in ambito regionale. Sono stati così adottati in alcune realtà regionali, di concerto con le Province, Masterplan dei servizi per il lavoro e/o linee di indirizzo collegate alla programmazione del Fondo sociale europeo per il settennio 2007-2013, mentre altre Regioni si sono dotate di provvedimenti amministrativi ad hoc (sovente sotto forma di cataloghi e repertori) tesi a dotare il territorio regionale di standard minimi per l’erogazione dei servizi per il lavoro comuni a tutta la rete dei soggetti pubblico/privati, garantendo la trasparenza e la tracciabilità dei servizi di politica attiva offerti e supportando l’attività di monitoraggio e valutazione sui risultati conseguiti. Ad ogni modo, quasi tutte le amministrazioni regionali hanno condiviso l’impegno alla qualificazione del sistema, seppur con strumenti diversi.
A ben vedere, da una parte la definizione dei criteri per l’ingresso degli operatori pubblici e privati nella rete regionale dei servizi attraverso il regime di accreditamento e, dall’altra, l’attività di accurata identificazione delle funzioni, delle aree di prestazione, degli standard e degli indicatori che debbono connotare il sistema in termini di qualità (con le connesse implicazioni in termini di risorse strutturali, strumentali e professionali), finiscono con il rappresentare le due facce di una medesima medaglia. Entrambi gli ambiti di intervento, infatti, condividono alla base l’esigenza di radicare il sistema regionale dei servizi per il lavoro su un quadro comune di criteri di riferimento, individuando i beneficiari e le condizioni di erogazione delle prestazioni a partire dai bisogni dei destinatari dei servizi. Pertanto, pur nella multiformità delle esperienze delle Regioni e delle Province autonome, i sistemi territoriali standardizzati di erogazione dei servizi per il lavoro delineati nella documentazione regionale annoverano una serie di attività comuni - dalla presa in carico dell’utente fino agli interventi più specialistici di politica attiva - che possono essere, a titolo puramente esemplificativo, sintetizzate nelle seguenti categorie di prestazioni:
• Informazione ed accoglienza, per sostenere l’utente nell’acquisire informazioni utili per orientarsi nel mercato del lavoro e per presentare i servizi offerti dalla rete regionale pubblico/privata (a titolo di esempio, comprensiva di informazione sui servizi disponibili per l’accesso al lavoro, su caratteristiche ed opportunità del mercato del lavoro e del sistema formativo).
• Presa in carico dell’utente, mediante la ricezione della dichiarazione di immediata disponibilità e la sottoscrizione del patto di servizio, come strumento di acquisizione del consenso dell’utente alla fruizione dei servizi per il lavoro e di sottoscrizione dei reciproci impegni.
• Orientamento di primo livello, per sostenere l’utente nella costruzione di un percorso personalizzato utile a promuoversi attivamente nel mondo del lavoro e a facilitarne l’inserimento ed il reinserimento (a titolo di esempio, comprensivo di: primo colloquio, valutazione del fabbisogno formativo, definizione del Piano di Azione individuale, quale strumento di pianificazione operativa e di tracciabilità dei servizi concordati).
• Orientamento specialistico, per fornire all’utente un supporto più approfondito all’individuazione dell’obiettivo professionale (a titolo di esempio, comprensivo di: consulenza specialistica, bilancio di competenze).
• Incontro domanda e offerta di lavoro, per facilitare l’utente nell’incontro con i datori di lavoro che abbiano presentato richieste di personale coerenti con il proprio profilo professionale e con i vincoli dichiarati (a titolo di esempio, comprensivo dell’attività di: acquisizione e gestione delle candidature, preselezione, raccolta e trattamento di auto-candidature, verifica della disponibilità utenti pre-selezionati per le candidature; azioni di intermediazione/promozione con i datori di lavoro; trattamento e registrazione dati nel sistema informativo).
• Accompagnamento al lavoro, per supportare l’utente nella ricerca dell’occupazione e nel rafforzamento delle competenze (a titolo di esempio, comprensivo di: proposta di misure di formazione, tirocini, stage, consulenza per la promozione dell’auto-impiego).
• Servizi per le imprese, per promuovere i servizi verso le imprese e rilevarne i fabbisogni e le richieste di prestazioni (a titolo di esempio, comprensivo di: erogazione di informazioni, servizi di consulenza normativa, screening dei fabbisogni di servizio e di personale, analisi del mercato di riferimento, orientamento circa le opportunità formative disponibili per l’adeguamento dei profili professionali aziendali ai fabbisogni formativi, preselezione delle aziende e selezione dei profili professionali rispondenti ai relativi fabbisogni).
Si tratta di una tematica che ha visto numerosi momenti di confronto tra le amministrazioni centrali e regionali, poiché impatta su una materia “nevralgica” che presenta ricadute notevoli sul sistema complessivo dei diritti e delle tutele dei lavoratori, soprattutto nei termini della costruzione di una reale connessione tra le misure attive che i servizi sono chiamati a porre in essere, gli strumenti di politica passiva fruiti da parte degli utenti dei servizi, le conseguenze in termini di status occupazionale del lavoratore derivanti dall’eventuale mancata adesione o dal rifiuto dei servizi proposti. Su tale versante, le modiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, mutano ulteriormente lo scenario di riferimento, introducendo il concetto di livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e richiedendo, pertanto, un ragionamento complessivo da parte di tutti gli attori istituzionali per un effettivo adeguamento dei servizi per il lavoro ai parametri individuati dal legislatore nazionale, fermi restando gli standard migliorativi definiti a livello regionale. Sullo sfondo, inoltre, teniamo conto di alcune ipotesi di riforma complessiva dell’assetto del sistema dei servizi, con un’eventuale ricollocazione di alcune funzioni a livello centrale, che si profilano anche in connessione con i progetti in itinere di riordino istituzionale del sistema delle Province.
Le novità della legge n. 92 del 2012 - Lo stato di disoccupazione
La legge n. 92 del 2012, pur procedendo attraverso singole modifiche formali all’articolato del D.Lgs. 181/2000 - riguardante la disciplina delle procedure di incontro tra domanda e offerta di lavoro - ha inciso in maniera sostanziale su alcuni aspetti di operatività dei servizi per il lavoro ed ha aperto di fatto alcuni rilevanti questioni problematiche in merito alla sua attuazione, che si pongono oggi al centro del confronto regionale. Ci riferiamo in particolare a due ambiti significativi di intervento della legge, che toccano il cuore del sistema dei servizi e, a cascata, dell’intero impianto dell’offerta delle politiche attive connesse:
- la nozione di stato di disoccupazione, il riconoscimento di tale status e la verifica sulla sua perdita o sospensione;
- il concetto di livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per il lavoro e la loro modulazione in relazione alle categorie dei destinatari dei servizi.
Con le modificazioni apportate dall’articolo 4, comma 33, lettera c) della legge n. 92 all’articolo 4 del D.Lgs. 181/2000 (concernente la fattispecie della perdita dello stato di disoccupazione) si va ad incidere su parti essenziali della disciplina previgente, relative agli istituti della conservazione dello stato di disoccupazione e della sospensione dello stesso.
Con riferimento al primo istituto, viene infatti abrogata la previsione che consentiva la conservazione dello status di disoccupato in caso di svolgimento di un’attività lavorativa da cui derivi un reddito non superiore al reddito personale minimo annuale escluso da imposizione fiscale. Si tratta di una previsione derogatoria rispetto alla regola generale sancita dall’articolo 1, comma 1 lettera c) del D.Lgs. 181/2000, secondo la quale per integrare lo stato di disoccupazione occorrono due condizioni concomitanti, l’assenza di un’occupazione e l’immediata disponibilità alla ricerca attiva della stessa. Attraverso l’abrogata disposizione, il legislatore si prefiggeva come scopo quello di non scoraggiare l’accesso in forma regolare dei disoccupati ad occasioni di lavoro di breve durata o a bassa remunerazione, consentendo altresì di non perdere i benefici connessi allo stato di disoccupazione (indennità previdenziali, benefici assistenziali, anzianità di disoccupazione). A tal proposito, ricordiamo anche che la normativa fiscale (da ultimo, la Legge finanziaria 2007) aveva individuato alcune soglie massime di reddito, distinte sulla base della tipologia contrattuale (rispettivamente, fino a 8000, 00 euro per il reddito da lavoro subordinato e fino a 4.800,00 per il reddito da lavoro autonomo), che consentivano di fatto al lavoratore, pur occupato, di conservare lo stato di disoccupazione e di conseguenza essere immediatamente disponibile anche nel corso di svolgimento dell’attività lavorativa; sotto questo profilo, la conservazione si distingueva dall’istituto della sospensione (articolo 4, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 181/2000), che viceversa produce la sua temporanea indisponibilità.
Nel nuovo testo della legge nazionale, la soppressione della fattispecie della conservazione dello stato di disoccupazione - salvo il richiamo operato alla stessa dall’articolo 2, comma 33 della Legge n. 92 con riguardo ai percettori dell’ASPI, con un norma di dubbia interpretazione che necessita di un chiarimento a livello nazionale - produce come conseguenza l’eliminazione di fatto dal novero dei soggetti disoccupati di coloro che svolgono qualunque attività lavorativa, anche a bassissima retribuzione o a carattere discontinuo, in primis i lavoratori autonomi e parasubordinati, con effetti molto negativi per costoro, in relazione sia al mancato accesso alle politiche attive offerte dai servizi per il lavoro, sia alla perdita del diritto alle prestazioni di welfare e agli strumenti di sostegno del reddito collegati allo stato di disoccupazione. Tutto ciò con evidenti conseguenze di carattere sociale, che andranno ad incidere ulteriormente su categorie di lavoratori già fortemente colpiti nel grave contesto di crisi economica.
Parimenti, sul versante dell’istituto della sospensione, la nuova disciplina interviene sull’articolo 4 del D.Lgs. 181/2000 sia eliminando i riferimenti temporali, sia modificando la tipologia di contratto di lavoro dalla cui accettazione deriva la sospensione dello stato di disoccupazione. Sotto il primo aspetto, il termine di durata del rapporto di lavoro (originariamente, inferiore a otto mesi ovvero quattro mesi per i giovani) viene uniformato a meno di 6 mesi; in relazione al secondo aspetto, l’accettazione di un’offerta di lavoro che dà luogo alla sospensione dello stato di disoccupazione (originariamente, a tempo determinato o lavoro in somministrazione) viene riferita esclusivamente al lavoro subordinato. Nel nuovo testo dell’articolo, pertanto, la sospensione opera solo in riferimento all’accettazione di un rapporto di lavoro subordinato di durata inferiore a 6 mesi. Anche in tale ipotesi, a ben vedere, la focalizzazione sulla tipologia del lavoro subordinato comporta l’esclusione dall’istituto della sospensione per quei lavoratori che accettino un lavoro in forma autonoma o parasubordinata, seppur di breve durata, con la connessa perdita dello stato di disoccupazione.
Alla luce della norma nazionale – che, come già anticipato, all’articolo 4 del D.Lgs. 181/2000 rimette alle Regioni la definizione dei criteri per l’adozione da parte dei servizi per il lavoro di procedure uniformi per l’accettazione dello stato di disoccupazione - l’operatività in concreto di tali nuovi principi è subordinata all’emanazione di provvedimenti regionali di attuazione nei rispettivi ambiti di riferimento, al fine di conformare agli stessi le procedure di collocamento adottate dei servizi territoriali per il lavoro. Pertanto, come confermato in una nota del ministero del Lavoro del luglio 2012, le amministrazioni regionali sono chiamate ad adeguare i propri sistemi di collocamento, modificando gli atti di indirizzo e/o i provvedimenti amministrativi un tempo emanati in attuazione del D.Lgs. 181/2000, nelle modifiche arrecate dal D.Lgs. 297/2002.
In questa direzione, la consapevolezza circa gli effetti negativi derivanti dalla stretta applicazione della norma nazionale in termini di disparità di trattamento tra le diverse categorie dei lavoratori, unitamente all’esigenza di non aggravare ulteriormente tali situazioni di squilibrio introducendo sul territorio criteri e procedure eterogenee, hanno portato le Regioni e le Province autonome ad approvare in Conferenza delle Regioni il 22 novembre 2012 un documento di Linee guida condivise, per una regolazione il più possibile unitaria della materia. Attraverso le Linee guida le Regioni - pur esprimendo una sostanziale non condivisione della ratio della norma ed anzi auspicando una sua revisione - mirano ad assicurare nei territori un sufficiente grado di omogeneità e raccordo amministrativo, mediante l’individuazione di alcuni elementi comuni di disciplina, da recepire negli emanandi provvedimenti di attuazione, il cui termine di adozione viene concordemente prorogato fino al 30 giugno 2013 per coordinare lo “start up” delle nuove regole e assicurare, in tal modo, un’adeguata dimensione di sistema.
Il tema, avendo carattere di urgenza, si pone oggi al centro di un vivace confronto interstituzionale, politico e tecnico, nell’ambito del quale le Regioni si sono fatte portavoce dell’istanza al ministro del Lavoro di una revisione sostanziale di questa parte della legge n. 92, tesa a reintrodurre, almeno in parte, i precedenti istituti e criteri operativi. Il governo, nelle ultime occasioni di confronto, ha condiviso i rilievi mossi dalle Regioni, impegnandosi ad apportare con tempestività le auspicate modifiche normative. Nelle more di tale intervento legislativo, e in vista dell’imminente scadenza del termine per l’adozione dei provvedimenti regionali a partire dal 1° luglio 2013, è stata concordata sul piano politico una sospensione dell’attività di adeguamento regionale alla disciplina della legge n. 92, dilazionando pertanto ulteriormente la messa in operatività delle nuove regole sullo stato di disoccupazione. Ciò anche al fine di non creare confusione e disagio presso gli operatori e presso gli utenti dei servizi per il lavoro, che con l’avvicendarsi delle normative, nazionali e territoriali, in un breve lasso di tempo si vedrebbero destinatari di discipline radicalmente diverse in merito ai medesimi istituti. Nel momento in cui scriviamo, la situazione appare dunque in fieri.
Le novità della legge n. 92 del 2012 - I livelli essenziali delle prestazioni
Un ulteriore ambito di intervento della legge n. 92 concerne l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) dei servizi per il lavoro. Si tratta, come noto, di una questione ampiamente dibattuta tra le Regioni e sulla quale, in diverse occasioni – tra tutte, si ricordi la proposta di un nuovo Masterplan nazionale dei servizi per il lavoro, formulata nel 2008 dalle Regioni e mai portata a compimento dalle amministrazioni centrali – si è acceso un vivace dibattito con il livello centrale, per le diverse problematiche connesse a tale opera di determinazione dei LEP, prima tra tutte quella relativa alla loro copertura finanziaria.
La legge n. 92 interviene sulla tematica con un duplice intervento modificativo del D.Lgs. 181/2000:
- la novella del titolo dell’articolo 3, che viene denominato “Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i servizi per l’impiego”;
- l’aggiunta al testo dell’articolo 3 (riguardante la proposta agli utenti da parte dei servizi per il lavoro di specifiche misure di attivazione) dei commi 1 bis e 1 ter, dedicati, rispettivamente, all’offerta degli interventi di politica attiva a favore dei percettori di ammortizzatori sociali in stato di disoccupazione, ovvero beneficiari di trattamenti di integrazione salariale in costanza di rapporto di lavoro, con sospensione dell’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi.
Inoltre, la legge n. 92 contiene il rinnovo della delega, già prevista nella legge 247/2007 di attuazione del Protocollo sul welfare, per l’emanazione, entro 6 mesi dalla sua entrata in vigore, di decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per l’impiego e politiche attive, rimandando a tal proposito ad un’intesa della Conferenza tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome (articolo 4, commi 48-50). Si noti che la delega non è stata esercitata nei termini previsti ed è quindi scaduta; permangono, invece, le modifiche all’articolo 3 del D.Lgs. 181/2000.
Per effetto delle modifiche apportate, il nuovo dettato normativo sancisce che costituiscono livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per il lavoro - concernenti diritti civili e sociali da assicurare in modo uniforme sul territorio nazionale ai cittadini ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione - le misure di politica attiva, nelle modalità individuate nell’ambito del patto di servizio e in conformità agli obiettivi ed agli indirizzi operativi definiti dalle Regioni, abbraccianti quanto meno:
- il colloquio di orientamento (entro 3 mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione) e la proposta di adesione ad iniziative di inserimento lavorativo o di formazione o di riqualificazione professionale o comunque di integrazione professionale, nei confronti di adolescenti, giovani, donne in cerca di reinserimento lavorativo (entro 4 mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione) e altri soggetti a rischio di disoccupazione di lunga durata (entro 6 mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione);
- il colloquio di orientamento (entro 3 mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione), le azioni di orientamento collettivo (tra i 3 ed i 6 mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione), con una formazione sulle modalità più efficaci per la ricerca occupazionale adeguate al contesto produttivo territoriale, la formazione (tra i 6 e i 12 mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione), di durata complessiva non inferiore a 2 settimane e adeguata alle competenze professionali della persona in cerca di lavoro e alla domanda di lavoro espressa dall’area territoriale di residenza, e infine la proposta di adesione ad iniziative di inserimento lavorativo entro la scadenza del periodo di percezione del trattamento di sostegno del reddito, nei confronti dei disoccupati destinatari di ammortizzatori sociali;
- l’offerta di formazione professionale di durata complessiva non inferiore a 2 settimane e adeguata alle competenze professionali del lavoratore, nei confronti dei beneficiari di trattamento di integrazione salariale o di altre prestazioni in costanza di rapporto di lavoro (destinatari di cassa integrazione guadagni, ordinaria e straordinaria, ovvero di prestazioni a valere sui fondi di solidarietà istituiti dalla legge n. 92), in sospensione dall’attività lavorativa per più di sei mesi.
È chiaro che, così scritta, la norma di per sé rischia di restare un contenitore vuoto; essa infatti rinvia alle Regioni l’emanazione di indirizzi per renderla operativa nel territorio, nell’ambito delle proprie regole di funzionamento del sistema regionale dei servizi per il lavoro, senza nulla determinare in termini di condizioni e modalità concrete di esercizio delle politiche attive richiamate (se non sotto il profilo dei termini e della durata delle prestazioni).
D’altro canto, è anche vero che in questo terreno entra in gioco la annosa partita della dinamica tra “LEP” e “standard”; i primi di competenza nazionale, secondo il dettato dell’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione, i secondi afferenti alle competenze delle Regioni, chiamate a declinare sul territorio attraverso propri atti normativi e amministrativi i LEP individuati dallo Stato, procedendo all'individuazione di criteri migliorativi e/o aggiuntivi e di condizioni e modalità di erogazione delle prestazioni, in coerenza con i bisogni e le peculiarità dei sistemi territoriali. Solo in tale dimensione appare, infatti, possibile preservare l'autonomia organizzativa dei sistemi territoriali, delimitando gli spazi di interlocuzione tra i diversi livelli coinvolti. Peraltro, tale impostazione sembrerebbe rispondere agli orientamenti della Corte costituzionale, che già nel 2005 con la sentenza n. 50, ha ribadito l’opportunità che la responsabilità legislativa dello Stato di definizione dei LEP, allorché applicata a materie di cd. “competenza concorrente” (come la tutela e la sicurezza del lavoro), sia sviluppata tenendo conto della necessità di procedere nella regolazione normativa mediante uno sforzo reciproco di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo coinvolti (1). Tale approccio, inoltre, è stato negli anni confermato dalla prassi, che ha registrato in numerosi casi la stipula di importanti intese sui temi del lavoro tra le amministrazioni regionali e centrali, estese talvolta anche alle parti sociali.
Occorre, tuttavia, ricordare come una qualunque riflessione interistituzionale in materia non possa prescindere dalle evidenti implicazioni di ordine finanziario che la determinazione sui LEP inevitabilmente comporta, se ci si pone nell’ottica di assicurare un’effettiva sostenibilità ed efficacia del sistema dei servizi per il lavoro. In questo senso, la legge n. 92 non prevede specificamente risorse dedicate all’attuazione dei LEP, se non con un generico rinvio ad un accordo di Conferenza Unificata per la definizione di un sistema di premialità, legato alle prestazioni dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, a valere sulle risorse del Fondo sociale europeo in coerenza con i documenti di programmazione degli interventi cofinanziati con i fondi europei. Per contro, la legge si premura di chiarire espressamente che dall’attuazione delle disposizioni collegate alla verifica del rispetto dei LEP da parte dei servizi non debbono derivare ulteriori oneri a carico della finanza pubblica, dovendo le amministrazioni coinvolte provvedere all’applicazione normativa con le risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente (articolo 4, comma 37).
In un contesto di criticità di bilancio, fortemente aggravato dalla crisi occupazionale e dal conseguente veicolo delle risorse economiche fruibili, tanto a livello nazionale quanto al livello regionale, al sostegno degli ammortizzatori sociali in deroga, appare evidente come la norma sui LEP appaia di per sé inapplicabile, se non completata e supportata da una copertura finanziaria adeguata che la renda sostenibile, oltre che esigibile. In questo senso, potrebbe essere utile mutuare la metodologia di lavoro sviluppata sul versante dell’individuazione dei LEP con riferimento ad altri settori, ad esempio la sanità. Ciò premesso, appare comunque opportuno nell’attuale panorama normativo e operativo mantenere acceso il grado di confronto tra le Regioni e le Province autonome per l’individuazione condivisa di alcuni standard comuni relativi all’erogazione delle politiche attive contenute nel patto di servizio/piano di azione individuale, in correlazione al concetto della congruità dell’offerta. Si tratta di un esercizio necessario, a garanzia della funzionalità e dell’omogeneità del sistema, considerando che, dalla stretta applicazione delle norme contenute nella legge n. 92, il rifiuto o la mancata adesione e partecipazione ad un intervento di politica attiva, offerto nell’ambito delle misure concordate tra i servizi per il lavoro e gli utenti, possono di fatto comportare per il soggetto la perdita dello stato di disoccupazione, con le prestazioni a sostegno del reddito eventualmente collegate.
La necessità di individuare i livelli essenziali delle prestazioni riferiti ai servizi per il lavoro, al fine di garantire l’uguaglianza dei diritti dei cittadini e di sostenere il miglioramento dei sistemi in tutto il territorio nazionale, è stata da poco rilanciata nella riflessione politica, che ha riproposto con forza la centralità di tale tematica nell’ambito dell’Agenda dei lavori nella nuova legislatura condivisa sul piano interistituzionale. Le Regioni, in tal senso, nel riconfermare il loro ruolo fondamentale in materia, hanno richiamato i capisaldi su cui potrà ruotare il dibattito sui servizi per l’impiego: territorialità; efficienza, efficacia e semplificazione; intreccio pubblico – privato e uniformità delle prestazioni fondamentali. Come ribadito nel documento approvato nel mese di maggio dalla IX Commissione e proposto al governo, appare necessario “affrontare il tema delle risorse, poiché la copertura dei livelli essenziali delle prestazioni richiede l’individuazione di adeguate risorse professionali, strumentali e finanziarie. A tal proposito, rimane aperto il tema delle risorse umane dei Servizi per l’impiego che oggi, in quasi tutte le realtà territoriali, è coperto con personale a termine, per cui ogni ripensamento del modello deve affrontare tale questione al fine di garantire un adeguato livello di servizi”.
Evoluzione del contesto istituzionale e profili di incidenza
Il dibattito sul ruolo dei servizi per il lavoro, nel momento in cui scriviamo, appare fortemente in evoluzione.
I dati disponibili non sono incoraggianti. Da uno studio pubblicato su Il Sole 24 Ore (2), sembrerebbe che nel 2011 solo il 32% dei disoccupati si sia rivolto ai centri per l'impiego (il dato più basso della UE a 27, escluso Cipro); in media appena il 3,9% dei disoccupati trova un impiego grazie al collocamento pubblico. Nel giro di tre anni, mentre le risorse investite in ammortizzatori sociali sono aumentate di oltre il 20%, quelle destinate a politiche attive e servizi per l'impiego sono calate, rispettivamente, del 6 e del 10%. Secondo l'elaborazione di Datagiovani per Il Sole 24 Ore sull'archivio Eurostat, l'Italia è tra gli Stati che spende meno in politiche del lavoro rispetto al Pil: solo l'1,7%, contro una media europea superiore al 2%. Con l’irrompere della crisi economica, tutti gli interventi sono stati naturalmente concentrati sugli ammortizzatori sociali, ad inevitabile detrimento delle risorse investite per la ricollocazione occupazionale dei lavoratori mediante le politiche attive. Dopo il 2008, a fronte di un aumento medio annuo del 23% nella spesa in sussidi passivi, i servizi per l'impiego hanno registrato al contrario un -10% nelle somme investite, con un calo del 6,4% per le politiche attive. L’Italia appare dunque il Paese europeo con il gap più ampio tra sussidi passivi e politiche attive (con l’eccezione della Romania); su un budget di circa 27 miliardi l'anno per le politiche del lavoro ed una platea di disoccupati che ha sfondato quota 3 milioni, circa l’80% delle risorse è assorbito dalle indennità monetarie, mentre esigue (circa 500 milioni) sono quelle riservate agli SPI.
La materia si presenta oggi come un "cantiere aperto", soprattuto alla luce di due importanti elementi di novità che contribuiscono notevolmente ad arricchire il quadro vigente anche attraverso una nuova impostazione della problematica:
- da una parte, sul piano istituzionale, il processo di riordino del sistema delle Province, con la conseguente questione della riallocazione delle loro funzioni (tra cui anche quelle relative agli SPI), al fine di garantire la continuità delle prestazioni al cittadino. La discussione, inoltre, si intreccia inevitabilmente con l’evolversi del disegno di riforma costituzionale, che proprio in questi giorni sta muovendo i primi passi con l’istituzione di un Comitato parlamentare ad hoc, con la finalità di pervenire tra l’altro ad un nuovo assetto del riparto delle competenze tra i soggetti istituzionali mediante una revisione del Titolo V della Costituzione;
- dall’altro, la riflessione condotta sul versante del negoziato tra l’Unione europea e l’Italia (amministrazioni centrali e Regioni) per pervenire alla definizione dell’Accordo di Partenariato relativo alla programmazione dei fondi europei per il periodo 2014-2020, secondo risultati attesi, priorità e metodi di intervento.
Alla luce di tali fattori e per far fronte alle richiamate criticità di funzionamento del sistema dei servizi (sia in termini di risorse umane, finanziarie e strumentali preposte, sia di raggiungimento effettivo degli utenti), si stanno affacciando sul panorama nazionale alcune ipotesi sostanziali di modifica dell’assetto dei servizi per il lavoro, anche mediante il rilancio di un modello nazionale di sistema con l’eventuale nuova centralizzazione di alcune funzioni.
Si tratta di numerosi tasselli, che qui tentiamo di ricostruire con piccoli sintetici cenni.
Con l’articolo 23 della legge n. 214 del 2011 (il provvedimento “Salva Italia”) e con l’articolo 17 della legge n. 135 del 2012 (in materia di cd. spending review) è stato avviato un processo di riordino delle Province e delle loro funzioni, ad oggi non ancora concluso.
Sull’argomento, anche a seguito della mancata conversione in legge di un decreto legge nel mese di novembre 2012, è intervenuta da ultimo la Legge di stabilità per il 2013 (legge n. 228 del 2012), che ha di fatto sospeso fino al 31 dicembre 2013 il cuore delle disposizioni della legge 214 in materia (articolo 23, con riguardo specifico ai commi 18 e 19) per garantire per tutto l’anno in corso la certezza delle funzioni provinciali, in attesa di una revisione organica.
In estrema sintesi – al netto delle problematiche di ordine costituzionale e tralasciando le parti della riforma riguardanti più strettamente l’accorpamento delle Province e le modifiche/soppressioni degli organi provinciali di governo, proposte nella logica della riduzione dei costi legati agli apparati burocratici e non pertinenti con l’argomento trattato in questa sede - le norme nazionali comportano una duplice dimensione di intervento:
- da una parte, riconoscono alle Province esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni, nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze;
- dall’altra, sanciscono che lo Stato e le Regioni, mediante una propria legge, da adottarsi secondo il quadro delle rispettive competenze, provvedano a trasferire ai Comuni le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo il caso che, per esigenze di unitarietà di esercizio, le stesse non siano acquisite dalle Regioni sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni, lo Stato provvede con legge in via sostitutiva. Inoltre, lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono al trasferimento dei beni e delle risorse umane, finanziarie e strumentali necessarie; a tal proposito, la legge specifica che la decorrenza dell'esercizio delle funzioni trasferite è inderogabilmente subordinata ed è contestuale a tale effettivo trasferimento dei beni e delle risorse necessarie all'esercizio delle medesime. La data indicata nel testo legislativo per i suddetti trasferimenti era il 31 dicembre 2012; come rilevato, queste disposizioni relative allo “svuotamento” delle funzioni provinciali sono “in sospensione” fino al 31 dicembre 2013;
- infine, nel disciplinare le procedure di riordino/accorpamento degli enti provinciali sulla base di criteri minimi collegati alla dimensione territoriale e alla popolazione residente, procedono all’individuazione delle funzioni fondamentali delle Province come enti di area vasta, ai sensi dell’articolo 117 lettera p) della Costituzione (pianificazione territoriale, ambiente, trasporti, viabilità, edilizia scolastica). Restano ad ogni modo ferme le funzioni di programmazione e di coordinamento delle Regioni, nelle materie di competenza legislativa concorrente ed esclusiva assegnate dall’articolo 117 della Costituzione, e le funzioni amministrative esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione.
Dal combinato disposto delle normative richiamate, risulta ad oggi una situazione provvisoria in cui, nelle more di un intervento riformatore organico, le Province continuano a svolgere per tutto il 2013 (oltre alle richiamate funzioni fondamentali individuate dalla legge n. 135 del 2012) le tradizionali funzioni amministrative già svolte in precedenza, a normativa vigente e prima dell’avvio del processo di riordino, compresa naturalmente quella relativa alla gestione dei servizi per l’impiego.
Dal 2014, si apre su questo versante una situazione di profonda incertezza, aggravata oltremodo dalla mancanza di risorse finanziare ordinarie destinate al sostentamento del sistema, in primis con riferimento al personale impiegato nei servizi per l’impiego. Si tratta di un punto dolente, ribadito con intensità dalle Regioni nelle occasioni di confronto con il ministero del Lavoro, soprattutto in considerazione del fatto che una parte sostanziale dei finanziamenti per il funzionamento dei servizi per il lavoro deriva dai fondi strutturali, in particolare del Fse. Si pone, pertanto, una problematica relativa alle prospettive future del sistema dei servizi per il lavoro, che a sua volta si intreccia sia con le dinamiche del negoziato con l’Unione europea per l’avvio della nuova stagione di programmazione, sia con le ipotesi attualmente in discussione tra lo Stato e le Regioni, legate in una prospettiva più ampia al tema della riqualificazione dei servizi, che potrebbero portare ad innovazioni molto significative e tali da incidere sull’articolazione funzionale del sistema.
Sul versante del negoziato con l’Unione europea, la documentazione propedeutica alla costruzione dell’Accordo di Partenariato annovera esplicitamente tra i risultati attesi in materia di occupazione (Obiettivo tematico 8) il miglioramento dell’efficacia e della qualità dei servizi per il lavoro. In particolare, si richiama la definizione e la garanzia dei LEP e degli standard minimi di servizio rivolti a cittadini e imprese, come risultato specifico da conseguire e da misurare attraverso indicatori ad hoc, accanto alla necessità di rafforzare il partenariato tra servizi per il lavoro, datori di lavoro e istituzioni scolastiche e formative e di integrare e consolidare l’utilizzo della rete Eures nell’ambito del sistema dei servizi. La bozza di Accordo di partenariato - in fase di definizione, concertazione con le istituzioni europee ed affinamento – propone, in tal senso, azioni specifiche, tra cui la costituzione di task force per l’applicazione dei LEP e degli standard, cui si affiancano azioni di governance del sistema finalizzate, tra l’altro, ad operare sul versante della qualificazione degli operatori dei servizi per il lavoro, dell’attivazione di meccanismi di premialità legati alla prestazione delle politiche attive e del monitoraggio e della valutazione delle prestazioni rese dai servizi, in riferimento all’implementazione dei LEP.
Si tratta di priorità di intervento che, pur riguardando la messa a regime di profili di riforma strutturale del mercato del lavoro, trovano nel prezioso sostegno dei fondi europei il canale operativo necessario per potersi radicare sia sul territorio, sia in una dimensione di sistema nazionale. Esse, peraltro, si intersecano con l’obiettivo tematico e con le azioni tese al rafforzamento della capacità istituzionale, intesa non solo come obiettivo specifico (Obiettivo tematico 11), ma anche come condizione preliminare e fattore trasversale incidente sul buon esito di ogni iniziativa. In questo senso, i materiali in corso di elaborazione pongono, a completamento dell’attività richiamata sul versante dei servizi, le azioni volte a potenziare le infrastrutture di servizio del mercato del lavoro, in primis con riferimento al miglioramento delle basi informative, statistiche e amministrative ed all’interoperabilità delle banche dati disponibili. La partita del negoziato è ancora aperta; appare evidente come l’apporto dei fondi strutturali appaia di fondamentale importanza, ponendosi in continuità con quanto realizzato nella precedente e nell’attuale stagione di programmazione, per dare sostanza e continuità alle prospettive future di funzionamento e consolidamento del sistema dei servizi per il lavoro attraverso adeguate risorse finanziarie e professionali.
Le dinamiche evolutive accennate, peraltro, fanno da sfondo alle ipotesi nazionali di riforma sostanziale del sistema dei servizi che affiorano con tratti ancora incerti nel dialogo tra i decisori istituzionali. Siamo di fronte ad una discussione in divenire, che prende avvio dall’esigenza di garantire efficacia e continuità alla rete dei servizi per il lavoro attraverso un disegno più uniforme e una regia condivisa. In questo senso, alcune piste di lavoro ventilate negli ultimi incontri politici, pur partendo dal radicamento territoriale dei servizi, in aderenza agli specifici fabbisogni espressi in ambito locale dal mercato del lavoro e in coerenza con la programmazione e l’organizzazione regionale della rete degli interventi, si pongono nell’ottica di un maggiore presidio da parte dell’amministrazione centrale, quale garante dei livelli essenziali delle prestazioni e responsabile delle funzioni di supporto e monitoraggio.
Si apre pertanto un percorso di lavoro congiunto tra lo Stato e le Regioni, per intervenire sull’assetto del sistema al fine di renderlo maggiormente integrato ed efficiente, in grado di superare le rilevate debolezze strutturali e carenze nel funzionamento e di consolidare un ampio bagaglio, pur diversificato, di esperienze positive in termini di politiche attive e di cultura di servizio rivolta al cittadino, accumulato in quasi quindici anni di attività sul territorio.